ARRAMPICARE
Sono cresciuto con l'affetto dei miei genitori, un bene sano ma distratto per forza maggiore dalla loro attività professionale (un locale pubblico), che li voleva impegnati e lontani 15/16 ore al giorno, 363 giorni all'anno (Natale e Ferragosto facevano festa). Nell'appartamento accanto al nostro abitavano gli zii paterni. Trascorrevo con loro e con la nonna paterna (che viveva con noi) buona parte del mio tempo e sempre, le vacanze estive. Lo zio era una guida alpina del C.A.I. e la sua passione passione per la montagna non impiegò troppo tempo a fare breccia nel mio cuore di bambino. A unidici anni avevo (all'insaputa di mamma e papà) percorso alcune delle belle più vie attrezzate delle Dolomiti: Pomedes, Pomagagnon, Sas De Stria, Tofana di Mezzo, Cima Fanis, Lagazuoi.
Lassù, tra il "rumore del silenzio" e gli spazi "infinitamente stretti" delle montagne, avevo la sensazione di riuscire ad incanalare la mia energia verso qualcosa di definito. Ma più di ogni altra cosa, avevo la percezione di essere "qualcuno", perchè avvertivo il peso di dover "fare delle scelte". E farle significava mettere un passo, un moschettone, un chiodo, in un punto, piuttosto che in un altro. Fissare delle svolte, dei passi che poi avrebbero avuto, nell'immediato, delle conseguenze. Avevo capito che ARRAMPICARE era qualcosa di molto attinente a VIVERE. Altro elemento che mi rapiva con il passare degli anni, era la forma di totale egoismo che si porta appresso la montagna e l'arrampicata, quando essere egoisti significa avere l'opportunità di godere da soli attimi d'intensità unica.
Arrampicare e "vivere la montagna", mi ha insegnato che posso modificare il mio modo di essere, ma non psso e non voglio modificare i comportamenti altrui. Questo si riflette sulla quotidianità e mi fa pensare di esserre in continua "arrampicata". La ricerca di nuove "vie" passa proprio da quest'esperienza e dal fatto di aver imparato a concentrare le energie dirottandole di volta in volta su di un unico passo, sapendo che il seguente sarà sempre una conseguenza di quello appena compiuto.
La montagna, le vette ardite, gli isolamenti della natura si portano appresso un senso di divino, da sempre, anche per chi non crede. Forse una parte di quel mistico scintillio dell'anima sta nel fatto che salendo, ci si avvicina al cielo. Ricordo sempre un passaggio di Cesare Pavese, a tal proposito, tratto da "I Dialoghi con Leuco". Diceva: "Basta un colle, una vetta, una costa. Che fosse un luogo solitario e che i tuoi occhi risalendo si fermassero in cielo. L'incredibile spicco delle cose nell'aria oggi ancora tocca il cuore. Io per me credo che un albero, un sasso profilati sul cielo, fossero dei, fin dall'inizio."
Altra similitudine che ho sperimentato di persona, è quella di Alessandro Baricco in "Emmaus": "Quando si rompe qualcosa cerchiamo solitudine e fatica. e lo facciamo camminando le vette dei monti, là dove ...."